L'estate al porto di Molfetta
Da bambino, con l'arrivo dell'estate, la banchina del porto di Molfetta diventava il rifugio dei miei desideri. Terminata la scuola, mi precipitavo a pesca e lo facevo in pantaloncini corti e maglietta. Erano giorni in cui il porto presentava uno spaccato di vita variopinto. Gente che passava la serata seduta alle panchine (o alla peggio, portandosi una sedia da casa - malcostume diffuso), chi camminava percorrendo il molo, chi aspettava la spigola dei sogni mirando il galleggiante luminoso. Il tempo e lo spazio erano due misure che perdevano il fondamento scientifico, perchè assumevano una connotazione melliflua: il tramonto e le maree scandivano l'arrivo della notte, mentre il faro e le banchine indicavano i confini di geografia appartenente ad un microcosmo chiamato "porto".
Il mare fungeva da cemento, arricchendo la mia diversità interiore, perchè abbatteva le distanze e riduceva le barriere: alieutiche, culturali o sociali, esse scomparivano nel momento in cui, da piccolo, posavo il galleggiante sull'acqua. Man mano che la gente passava, flotte di curiosi venivano a farmi visita, e gli immancabili "vecchietti" mi intrattenevano con narrazioni, storie inverosimili, racconti di fantasmagoriche catture di spigole dal peso standard di sette chili e cinquecento grammi. In tale contesto si snodava il mio paradiso, contrassegnato da uno spazio dove i pensieri di pescatori incontravano quelli dei sognatori, degli audaci, dei pirati, dei briganti; uno spazio dove i pensieri giocavano con le fantasie nascoste nel cuore, lungi dal mescolarsi con la routine di una quotidianità, che spegneva gli entusiasmi e riduceva l'uomo a freddo calcolatore, estraneo ai sentimenti.